IL BATTISTERO DELLA 

CATTEDRALE DI TRIESTE 

IL CROCIFISSO ROMANICO

Nei secoli XII e XIII la cattedrale di S. Giusto continua la propria rinascita, iniziatasi nell’XI secolo con la ricostruzione della basilica madre, sempre di dedicazione mariana, seguita un secolo dopo dall’ampliamento del sacello martiriale. Entro la prima metà del XII secolo nell’abside della basilica madre dell’Assunta si realizza uno straordinario mosaico, accogliente nella fascia inferiore i Dodici Apostoli e nel catino absidale Maria Madre in gloria con Gesù Bambino, affiancata dagli arcangeli Michele e Gabriele.  

IL FONTE ESAGONALE 

CROCIFISSO ROMANICO 

Tra il XII e il XIII secolo si assiste a una svolta nell’iconologia di Gesù Cristo crocifisso, che mentre fino a quel periodo era prevalentemente concepito come vincitore sulla morte e proiettato alla resurrezione, in seguito incomincia a essere interpretato nella sua sofferente agonia. Nel primo caso si parla di Christus triumphans – connotato da quattro chiodi (di cui due per i piedi), corona e occhi aperti – nel secondo di Christus patiens – con tre chiodi, capo reclinato e busto inclinato, occhi chiusi. col volto e con il corpo sofferenti.

Lo splendido esempio triestino è in una via di mezzo: frontale, capo leggermente inclinato, corona gemmata (solo in parte conservata), occhi semiaperti ed espressione quietamente compassata. I tratti facciali e corporei sono privi di tensione; il volto è ovale, terminando a punta sul mento. La capigliatura scriminata centralmente si appoggia sulle spalle terminando a boccoli rastremati. Il busto è dilatato e tende ad appiattirsi, ancheggiandosi moderatamente a sinistra. Il perizoma copre il ginocchio sinistro e lascia scoperto il destro; è pieghettato in elaborate linee sinuose, con un alto rimborso superiore fermato da un nodo a occhiello a sinistra e con un doppio rimborso verticale. 

Presenta apprezzabili affinità col crocifisso del duomo di Cividale, ma in misura maggiore con un altro crocifisso a Cividale, proveniente dalla chiesa del cimitero. Il volto di quest’ultimo è assai vicino a quello di S. Giusto, cosí come lo sono la frontalità del corpo e la sporgenza dell’addome, rispetto a un busto analogamente dilatato. Il superiore grado di affinità rispetto a quello del duomo, rende plausibile una conoscenza reciproca dei maestri, ma pure il secondo esempio cividalese non raggiunge quella morbidezza e quell’armoniosità dominanti a Trieste.

Entrambi i forogiuliesi sono molto prossimi alla cultura tardo-ottoniana, con la quale anche il crocifisso di S. Giusto può avere punti di contatto. L’esempio di Forstenried in Baviera (ultimo quarto del XII sec.) si evidenzia per le linee strutturali secche e calligrafismi codificati nel volto e nel corpo. I lineamenti sono marcati e severi, ma inseriti in una condotta pacatezza, non troppo minore di quella triestina. Da citare poi il classicissimo crocifisso di Gerone a Colonia, (fine X sec.). Il tipo di perizoma con nodo a sinistra estroflesso e lembo sollevato sopra il ginocchio, e la sporgenza addominale si possono ritrovare, pur con maggiore morbidezza, a Trieste. 

   Un legame preciso di parentela s’instaura col crocifisso dell’Institute of Arts di Detroit. La struttura è meno longilinea, ma analoga è la medesima configurazione a lobo dilatato, includente in una «S» il corpo e le gambe. La capigliatura e il volto sono simili, anche se questo è più reclinato e maggiormente contrito. Stesso tipo di perizoma, pur con la configurazione qui a un solo rimborso in verticale al posto dei due a Trieste. Le braccia sono più tese e terminano con le mani a cucchiaio, elemento non riscontrabile a S. Giusto.

    


   L’unicità di questi due crocifissi hanno spinto la storiografia a inserirli in una corrente «lagunare». Si intende con ciò un legame con Venezia, ritenuta da gran parte della critica rappresentante della cultura medio-bizantina, ma anche con l’Aquileia ottoniana, negli affreschi absidali popponiani. O ancora con un altro ciclo ottoniamo: gli affreschi nel battistero di Concordia (tra XI e XII secolo). Il ricorso a riscontri pittorici è stato dettato dalla mancanza di raffronti scultorei validi. Alla fine deriva una comunanza ambientale tra i due maestri d’ascia e i pittori dei mosaici sulle volte di S. Marco a Venezia e della cripta di Aquileia (seconda metà XII sec.). 

Nella cappella destra dell’abbazia di Summaga (inizio XIII sec.) si ritrovano i boccoli stilizzati della capigliatura e il volto, ai limiti del sorriso: elementi non lontani dal crocifisso triestino.

Il Gesù Cristo crocifisso nel mosaico di S. Marco a Venezia è connotato da una quiete idealizzata, ma il corpo è slanciato e ancheggiato. Inoltre è percorso da un fitto grafismo, ad accentuare la dimensione astratta. 

L’esempio aquileiese spicca per l'espressività drammatica ed è in qualche modo è in sintonia con la grazia delle opere lignee. Invece il corpo è qui slanciato come da atleta, affusolato e ancheggiato, per nulla dilatato.

Decisamente più efficace è un confronto fra la rasserenata espressione del volto e del movimento ondulato nel Cristo aquileiese e l’analoga nel coevo Sacramentario di Clermont Ferrand.

Sono stati cercati punti di consonanza con una Crocifissione miniata nel Salterio di Santa Elisabetta (inizi XIII sec.) in ambito turingo-sassone. Vi si ritrova una vitalità scenica pari a quella aquileiese - e sconosciuta a Venezia. Ma le marcature grafiche addizionali dei lineamenti segnalano un incipiente Zackenstil, artificio grafico espressivo invece assente ad Aquileia.

Il carattere del Messale di Stammheim si ritrova nel ciclo di affreschi in S. Maria Assunta a Muggia Vecchia (fine-inizio XII-XIII sec.). Analoga l’espressione fanciullesca pure in una scena di martírio, nel personaggio che regge la graticola di San Lorenzo, avvicinabile a quella del vescovo Bernward di Hildesheim, raffigurato nella miniatura di Stammheim. In entrambi i casi si attua sistematicamente l’ammorbidimento di ogni durezza drammatica, nelle forme dei corpi e nelle stilizzazioni facciali, tra cui compare la stessa sfumatura degli zigomi arrossati. Di sicuro il maestro di è di educazione miniatoria, come dimostrano gli Evangelisti intenti al banco da scriptorium, i quali spiccano oltretutto per la tipica sinuosità calligrafica miniatoria.

Piuttosto il caso unico del Messale di Stammheim – produzione di Hildesheim, terzo quarto del XII sec. – ha molte affinità con il litorale triestino. Gesù Cristo crocifisso presenta un fisico longilineo, ma non cosí slanciato come l’aquileiese. Inoltre l’ancheggiamento solo accennato e l’addome leggermente sporgente sono paragonabili al crocifisso di Trieste. Non si può parlare di connessione, ma sorprende l’analoga rilassata pacatezza, priva sia di tensione sia di tratteggio espressionistico aggiuntivo. 

Ma esiste un preciso collegamento tra le équipes di Muggia Vecchia e del Sacello di S. Giusto, che alla fine risulta essere la medesima. Un altro maestro, con caratteristiche decisamente più enfatiche ed espressive, dipinge in modo identico gli specchi d’acqua con gli stessi pesci, rispettivamente nella scena muggesana di San Cristoforo e in San Giusto gettato in mare a Trieste. 

   Nel ciclo del sacello tergestino addirittura i due maestri operano nelle stesse scene. Ad esempio nel San Giusto condotto da Manazio i primi due personaggi da sinistra sono molto garbati e addirittura solenni, nonostante inveiscano contro il martirizzando. Subito dopo subentra un’enfasi drammatica delle figure, che si atteggiano platealmente, spalancando la bocca e sbarrando gli occhi. Osservando il grottesco figuro con sembianze beluine, lo si può paragonare – ormai con sempre minore sorpresa – con l’allegoria della Morte in un clipeo alla destra della Crocifissione di Stammheim.

Parimenti è analoga la compostezza cordiale di entrambi i vescovi muggesani, accostabile tanto alla figura cristologica quanto alle figure dei màrtiri: San Giusto con la mano levata, quasi un gesto di saluto; San Servolo con lo sguardo deviato allo stesso modo del vescovo Zenone a Muggia Vecchia. A loro volta i vescovi sono collegabili per la postura e per i panneggi ai loro omologhi affrescati poco tempo prima sui piedritti delle volte nella cripta di Aquileia.

Alzando lo sguardo dal Martirio affrescato nell’abside del sacello, si verrebbe scoraggiati da attribuire il fastoso splendore del mosaico allo stesso maestro. Eppure a cominciare dal Cristo Pantocratore si è obbligati a constatare che tramite una stesura sfumata delle cellule descrittive qui si addiviene a smorzare sensibilmente la perentoria severità del suo modello canonico di riferimento, ossia la celebre icona sinaitica di VI sec. Inoltre la descrizione della mano benedicente è del tutto simile a quella del vescovo anonimo a Muggia Vecchia. 

Ma il collegamento più sicuro con Aquileia è la prima figura da sinistra in San Giusto condotto al martirio. Col suo strano sorriso laconico e col volto appoggiato sulla mano sembra presentare come una maschera da sipario il dramma che si sta per svolgere. Ad Aquileia ritroviamo la stessa postura nel San Giovanni nella Deposizione dalla croce, nel margine destro; ancora San Giovanni nella Crocifissione; infine Nicodemo nel Compianto su Gesù Cristo morto. Il cosiddetto os columnatum, descritto nel Miles gloriosus di Plauto, viene utilizzato assieme a tanti altri caratteri tipici nelle illustrazioni delle  commedie di Terenzio. Dal modello del del Terenzio Vaticano (V sec. d.C.), a partire dall’età carolingia fiorisce la moda delle edizioni terenziane illustrate. Nella cripta di Aquileia in particolare si usano le configurazioni del Terenzio di Oxford (1150 ca.). A sua volta il miniatore oxoniense discende dalla scuola dell’Anjou, originatasi agli inizi del XII secolo, ed è contestuale al fenomeno artistico definito Channel Style. Dunque il maestro di Aquileia doveva avere contatti con l’ambito francese (vedi il Sacramentario di Clermont Ferrand), ed era un miniatore di formazione, come il suo collega di Muggia Vecchia, ossia il Primo maestro di San Giusto, che ne aveva imitato la figura dell’os columnatum. Alla cultura teatrale appartengono anche altri personaggi, come la Madonna dolente nella Crocifissione, che pare interpretare la sacra rappresentazione del Planctus Mariae, con gli occhi attoniti sono a stento trattenuti nelle orbite e gli zigomi arrossati, ove i classici circoli rossi romanici sono sanguignamente stemperati e allargati. Si tratta sempre di un trucco da scena, del makeup steso sopra la sinopia. Infatti il Gesù Cristo reggente l’animula di Maria nella Dormitio, dilavato dal trucco, rivela una conduzione perfettamente naturalistica, come nelle scene epico-morali in bicromia nei cosiddetti velari della zona inferiore.

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